Al Cremlino, negli appartamenti che furono di Vladimir Lenin, Enzo Biagi osservò interdetto come uno degli uomini più famosi e controversi della storia, fosse assolutamente essenziale e semplice nei suoi bisogni. Si trovava in Russia per un soggiorno di tre mesi e il suo desiderio era quello di conoscere intimamente la cultura e i personaggi che avevano fatto grande la storia di quel Paese. Così, dopo la tomba di Pasternak e una visita all’amante del grandissimo poeta Vladimir Majakovskij, Enzo Biagi si ritrovò nella cucina di Lenin a osservarne la nudità di comfort se non per un oggetto che, nelle sue indagini nelle case russe, non era mai mancato: il samovar. Anche Lenin, che rinunciava a gran parte degli agi e dei comfort che la sua posizione poteva garantirgli, non poteva fare a meno di questo prezioso oggetto, simbolo di una cultura complessa, tormentata e bellissima.

Accessorio immancabile in una cucina russa, il samovar ha quasi certamente origini europee anche se ne ritroviamo tracce antiche in Turchia: probabilmente l’origine del samovar russo è rintracciabile in un primo modello olandese introdotto in Russia da Pietro il Grande, che con l’Olanda, all’epoca, aveva moltissimi affari e piaceri da gestire.
Presto migliorato rispetto a quel primo, curioso e stupefacente oggetto importato al seguito dello zar, il samovar divenne il simbolo della cucina russa, padrone incontrastato del tavolo o anche della stanza intera, nel caso dei samovar da pavimento, decisamente grandi e utili anche come riscaldamento.
La famiglia amava riunirsi intorno a questo grande bollitore e prendere il tè in un rito comune a moltissimi popoli che, anche in Russia, univa tutte le classi sociali. Il samovar era così presente che divenne ovviamente anche un simbolo dell’agiatezza dei suoi possessori: dall’ottone al rame, i più diffusi, fino a preziosi samovar interamente in argento o addirittura in oro, ricchi di intarsi, sezioni in porcellana, legni pregiati o pietre preziose. I più costosi mai fatti sono certamente quelli di Fabergé, il notissimo orafo russo, per pochissimi privilegiati.
Oggi il samovar ha perso molto del suo valore sociale e storico, non è più il simbolo di un momento collettivo, intimo, tra amici e famiglia. Gli antichi samovar sono diventati oggetti da collezione, sostituiti dai più comodi modelli elettrici, che non riescono però a sostituire il piacere grandissimo della preparazione e della cura necessari alla messa in opera di un vero e proprio rituale. Ivan Aleksandrovič Gončarov, quel brillante autore che ha dato alle stampe la storia dell’uomo più pigro della storia, Oblomov, scriveva nel suo libro Fregata Pallada dedicato alle memorie in mare: “Saprai cosa significa una tazza di tè quando, di ritorno da un gelo pungente con trenta gradi sotto zero, entrerai in una stanza calda e ti siederai accanto al samovar per saggiare la dignità del tè”.



Praticamente impossibile addentrarsi nella letteratura russa senza trovare un riferimento al samovar, al tè e alla comunione intorno a questo grande bollitore che spesso ospitava in cima porcellane orientali o europee. Curioso infatti come in Russia, il culto del tè sia arrivato tardi, nel 1600 circa, introdotto proprio dalla Cina insieme agli accessori tradizionali necessari alla preparazione e al servizio. Eppure, prima del tè, ai tempi del leggendario Regno di Rus’, esisteva lo sbiten’, una beanda a base di miele ed erbe medicinali che però, di fronte all’ingresso del tè, non ha retto il confronto: così i russi ne hanno fatto un simbolo di orgoglio e distinzione, tanto da far diventare la loro versione nazionale famosa in tutto il mondo, sebbene per molti sia davvero troppo forte (tè nero e foglie di menta in infusione a creare un elisir potentissimo e soprattutto bollente).
Il samovar presentato in queste immagini appartiene alla nostra selezione antiquaria, è stato acquisito in Inghilterra e si può acquistare qui.