Entrambe manifestazioni della più alta creatività umana, entrambe espressioni di un linguaggio che vuole raggiungere la parte più intima e sensibile dell’anima, il cinema e l’arte hanno un legame indissolubile e vitale. Soprattutto, il cinema è lo strumento che con più forza, immediatezza e semplicità riesce a raccontare e trasmettere l’arte anche a chi poco vi si avvicina.
Biografie di artisti che hanno fatto la storia dell’umanità, espressioni visive di dolori, gioie ed emozioni che hanno portato alla nascita di opere incredibili o ancora, i racconti di ciò che artista e società hanno superato, combattendo insieme o come avversari: il cinema è il mezzo più potente di cui noi, pubblico privilegiato, possiamo servirci per conoscere, approfondire e scoprire le meraviglie dell’arte.
Ecco una lista di quattro titoli immancabili per ogni cinefilo che vuole nutrire il proprio amore per arte, storia, cinema e bellezza.
Brama di Vivere è un film del 1956 che mette in scena la vita di Vincent Van Gogh nell’interpretazione di un allora divo di Hollywood per eccellenza, Kirk Douglas, la cui interpretazione di Van Gogh è decisamente notevole. Girato da Vincente Minnelli si basa sul libro omonimo di Irving Stone. Attraverso una fedele ricostruzione della vita del pittore, ripercorriamo le tappe che hanno segnato l’uomo tra tormento e ascesa, attraverso scelte registiche peculiari dell’epoca d’oro degli anni hollywoodiani, scelte che valsero al film premi e nomination prestigiose agli Oscar e ai Golden Globe. Tra gli attori, mostri sacri del cinema come Anthony Quinn nei panni di Paul Gauguin. Il produttore della pellicola, John Hauseman, coltivò il progetto di questo film per quasi dieci anni.
I Colori della Passione, del 2011, è un’opera complessa e di rara bellezza sensoriale, che risponde a una esigenza del regista ben precisa: quella di immergere lo spettatore in una realtà su più livelli attraverso il racconto di un dipinto. Una meta-opera il cui protagonista è Pieter Bruegel, maestro fiammingo del 1500. Nella pellicola, il pittore dipinge uno dei suoi quadri più famosi, La Salita Al Calvario: lo spettatore guarda il maestro Bruegel, il maestro guarda la sua tela. La tela è viva e si riempie di personaggi a cui il pittore attinge per la sua ispirazione. Il mugnaio, i giovinetti del villaggio, i pastori: li osserva nella loro vita reale, sprazzi di realtà che vengono fissati per sempre su una tela tridimensionale man mano che le vite si intrecciano e le storie si svolgono sotto gli occhi dello spettatore. Un’opera affascinante del regista polacco Lech Majewski che è stata proiettata nelle gallerie, nei musei e nei siti d’arte più prestigiosi del mondo, prima di approdare infine, per un brevissimo istante, nei cinema.
Andrei Rublev, del 1966, è un film difficilissimo da affrontare, una prova ardua che il regista, l’immenso Andrej Tarkovskij, posiziona sapientemente al centro del percorso di costruzione culturale di cinefili e amanti dell’arte. Non solo, si tratta di un ritratto crudo e senza sconti di un passato, quello della Russia del quindicesimo secolo, che fa da sfondo all’arte del maestro indiscusso, ieri come oggi, dell’icona russa. Andrei Rublev vive una vita dura, fatta di violenza, brutture dell’animo umano e fede, moltissima fede. Questa la visione di Tarkovskij, che per raccontare le opere preziosissime e immortali di Rublev, può basarsi solo sulla storiografia del tempo ma non su biografie dell’artista. Non ne esiste nessuna. Rublev ha attraversato i secoli rendendosi immortale attraverso le sue icone, diventando un santo della Chiesa Ortodossa e dando vita a una rappresentazione di fede come mai al mondo si è visto. Il nocciolo della pellicola, oltre a mostrare al mondo chi fu Andrei Rublev, è soprattutto l’indagine degli effetti dell’arte in un contesto devastante, in grado di annientare qualsiasi sensibilità in un animo debole. L’arte di Rublev ha influito, durante e dopo, nell’evoluzione della società russa e nel dialogo dell’uomo con Dio?
Arca Russa del 2002, è la pellicola di un altro pilastro del cinema russo e mondiale, Aleksadr Sokurov, il cui splendore sconfina dall’immagine per infiltrarsi nell’appagamento estetico di chi guarda. Primo aspetto notevole della pellicola è la tecnica registica, un unico piano sequenza senza nessuno stacco, un unico lunghissimo respiro che dura un’ora e trentanove minuti. La cinepresa accompagna due uomini che attraversano i magnifici saloni del Palazzo d’Inverno a San Pietroburgo: di uno non conosceremo mai l’identità, dell’altro sappiamo che è un marchese francese del 1800. Egli è l’accompagnatore arguto che mostra i favolosi interni e le opere d’arte del Palazzo d’Inverno allo sconosciuto visitatore, noi probabilmente, dialogando di arte, politica, guerra, amore, mentre personaggi effimeri del passato e del presente si muovono per i corridoio e le sale da ballo. Sokurov mescola storia, arte e politica guidando lo spettatore passo passo verso domande che a volte rimangono senza risposta, mentre la mente registra, con il fiato sospeso, l’incredibile bellezza sospesa nel tempo del contesto. Il finale del film non delude, un risvolto fantastico per un film che sembra davvero un’esperienza onirica in stato di veglia.