
La nostra recensione sulla mostra e sullo spazio espositivo di Palazzo Doebbing rimesso a disposizione del pubblico grazie a un accordo tra l’attuale sindaco di Sutri, Vittorio Sgarbi, e Sua Eminenza Monsignor Romano Rossi, vescovo della diocesi di Civita Castellana. Una occasione rarissima di vedere dal vivo, e in esposizione inedita, opere d’arte impressionanti per valore e importanza storica.
Abbiamo ammirato, a un sospiro di distanza tra noi e la tela, dei Grandi: da Guttuso a Francis Bacon, da Tiziano a Rousseau, incorniciati dalle sale e dai soffitti di un ex palazzo vescovile la cui cura e dettagli prestigiosi, contribuiscono a trasportarci nel passato, in un altro livello di magnificenza e sensazioni artistiche.

Chiuso per lungo tempo, in una posizione panoramica che sovrasta parte del paese di Sutri, in provincia di Viterbo, Palazzo Doebbing vale la passeggiata di circa un’ora e mezza da Roma e meno di un’ora da Viterbo. Un ingresso con giardino, dove già si ammirano dei bronzi, permette di guardare un panorama ampio, limpidissimo nella giornata della nostra visita. Ammiriamo il verde e i tetti sotto di noi, ammiriamo in lontananza le torri di un castello nei pressi di un lago, ammiriamo la torre che ci sovrasta e allunga la sua ombra, protettiva e accogliente, verso il piccolo prato dove sostiamo.
Palazzo Doebbing ha grosse mura spesse, porzioni di tradizionale tufo a vista, pavimenti di antichissimi mattoni in cotto. I soffitti sono alti e scopriremo che ogni stanza ha il proprio: diverso, importante, a volte con la stratificazione del tempo mantenuta a vista. Ci sentiamo come visitatori privilegiati di spazi dove non è affatto difficile immaginare tonache scure e passi felpati, bisbigli, luci dell’alba che schiariscono le tante sale dei tre piani, luminosissimi, su cui si sviluppa l’esposizione attuale.

Dall’aprile 2019 al gennaio 2020, è possibile passeggiare per Palazzo Doebbing ammirando, senza nessuna teca protettiva o cordone di separazione, senza nessun filtro, senza nessun ostacolo spaziale, le tele e le opere di artisti il cui nome fa sognare.
Durante la nostra visita, siamo solo noi e queste opere, noi e nessun altro: una coppia di turisti tedeschi compare ogni tanto incrociando i nostri percorsi, ammutoliti dalla possibilità di portare gli occhi talmente vicini al queste meraviglie, da ammirarne le singole pennellate, vedervi addirittura una setola rimasta incastrata in un verde meraviglioso. Loro e noi siamo senza parole per questo annullamento spazio-temporale che ci permette di respirare la tela alla stessa distanza in cui lo fecero gli artisti.
All’ingresso ci accoglie (in esposizione permanente), unico elemento protetto in una teca, l’antichissimo Efebo di Sutri, scoperto per caso in un terreno durante degli scavi agricoli. Un mistero che vivrà per sempre, questo bellissimo Efebo davvero ben conservato: ripescato dalla terra a testa in giù, abbandonato in mezzo al niente, dove le indagini degli archeologi non hanno trovato segno di vita. Forse un esemplare caduto durante un viaggio, una refurtiva nascosta, uno scherzo dimenticato?

La scelta, dopo aver ringraziato l’Efebo per il suo benvenuto, è quella di salire o scendere. Se scendiamo, arriviamo subito alle cantine che ospitano una mostra di fotografia contemporanea molto emozionante e visivamente notevole. Sono i tritratti degli ultracentenari di un paesino della Sardegna, volti nitidisissimi su sfondi ben delineati e che raccontano il background di storie individuali che, nell’atmosfera semibuia e più fredda della cantina, si vivono sulla pelle, così vicine e grandi ai nostri occhi. Possiamo ammirare su grandi pannelli i dettagli delle fotografie, con tutta calma: il silenzio, le luci basse, l’atmosfera chiusa e fresca della cantina, ci regalano dei momenti di apprezzatissima solitudine, confortante. Anche i nostri pensieri, così come le foto di Carlos Solito e di questa mostra, intitolata A Chent’annos (A Cent’anni in logudorese), sono limpidi e fermi.

Torniamo su: se l’anticipo della mostra, le fotografie di Solito, ci danno un’idea di ciò che vedremo, abbiamo già i brividi di gioia.
Ci accolgono subito le tele, enormi e dai colori meravigliosi, di Luca Crocicchi, tele davanti a cui si ha l’impressione di entrare completamente: sono sentieri e spazi in cui domina il verde smeraldo, leggermente offuscato come se guardassimo la scena di un sogno. I colori chiari sono pastello, ma quel verde che fa da filo conduttore in queste tele, o che almeno a noi semplici amatori e non critici, sembra farci da guida in uno scorcio dopo l’altro… è vibrante e vivo, ed è bellissimo stare fermi lì davanti e immaginare di esserci in mezzo.

Ci accorgiamo da subito che le sale di Palazzo Doebbing sono generose: i portoni e i soffitti ci hanno subito fatto innamorare, non sappiamo dove guardare e abbiamo voglia di muoverci e di spostarci da una sala all’altra, contemporaneamente, di guardare fuori il panorama dalle luminose finestre, di guardare da vicino i bronzi di Ernesto Lamagna, il cui impatto è doloroso; scatena in noi la morbosità verso l’aspetto più oscuro della realtà e dell’arte.
Vedremo a bocca aperta la grandezza, non solo letterale, di due opere pregiatissime: L’Immacolata, di Scipione Pulzone (1581), e L’Estasi di San Francesco di Tiziano (1561), dai colori e dalla potenza ancora esplosivi. Non si può commentare granché davanti a opere di questo livello, perché il peso della Storia e il valore culturale di quest’arte, sono una eredità che parla da sola al posto nostro.
Come per dare respiro al visitatore, le sale del palazzo con il loro silenzio e l’ampiezza, mostrano timidamente dettagli architettonici su cui si fa una pausa: un grande camino coperto, fregi alle pareti, affreschi decorativi discreti.

La nostra visita solitaria continua, davanti alla serie di autoritratti di Fausto Pirandello. Di lui ancora non sappiamo niente, ma prendiamo disarmati quello che le sue opere trasmettono: il suo volto cambia, cambiano i colori, cambiano le emozioni. Pirandello sembra essere un uomo (e forse anche un artista) abbastanza tormentato, in bilico tra il rimpianto di una serenità che si nota in alcuni autoritratti puliti, sereni e giovanili, e la cupezza e la depressione che lo vedono ritrarsi con espressioni stravolte, stanche, abbattute. Salta subito all’occhio la delicatezza del tratto ma soprattutto il contrasto con ciò che viene rappresentato: i volti di Pirandello sono una esperienza da viversi in silenzio, un po’ impacciati, un po’ mortificati del non saper cogliere tutta la storia che vi è nascosta dietro.
Molto più corposi in termini di angoli e colori, i quadri di Ottone Rosai, che ci raccontano anche qui una storia di emozioni contrastanti. Cioè che Rosai ci trasmette è la sensazione di avere davanti una pittura aggressiva, decisa, piena di idee: vediamo opere dove ci sono figure e linee ben marcate ma i colori non sono vibranti, sono pesanti, a volte si inseguono nelle tonalità più scure. Anche qui ci domandiamo che storia, certamente un po’ tormentata, abbia dietro questo pittore che qui conosciamo per la prima volta.


Ligabue e Guttuso invece, non hanno nessun bisogno di presentazione e se già conosciamo le loro opere e il loro modo di fare arte, ne restiamo comunque impressionati, come se avessimo davanti loro stessi in persona. Tanta è la soggezione che queste opere ci trasmettono, semplicemente esposte lì, in una parete grandissima, illuminate dal sole, pezzi di visioni e osservazioni e pensieri di due tra i più grandi artisti del Novecento.
Perla tra le perle, l’esposizione di opere di Francis Bacon, introdotta da un commento audiovisivo dove si raccontano retroscena della vita dell’artista e del suo modo di fare arte: l’impatto è notevole, bello, l’espressione su tela intrigante, misteriosa, capace di creare confusione e stordire, grazie a questi volti che ci sono e non ci sono e a questi colori di sfondo che travolgono fin da lontano.


Infine, la parte che più abbiamo trovato bella, coinvolgente, splendida, seppur tutto il percorso fino a questo momento è stato una meraviglia, da godersi attimo per attimo. Le tele di Henri Rousseau, i colori accesi, frenetici, la ricchezza dei dettagli, le scene dinamiche, le espressioni di vite e di cieli che strillano decisi in una delle sale più grandi, su al terzo piano.
Qui, ciò che ci resta più impresso, è un dipinto di Ligabue: siamo a pochi centimetri da una tigre che si agita selvaggiamente morsa da una tarantola e siamo totalmente coinvolti in questa visione, quasi sconcertati dal dolore che la posizione del corpo e i colori di questo animale ferito ci trasmettono.

Non possiamo che uscire allibiti e davvero contenti, soddisfatti e assolutamente entusiasti di questa mattinata. Palazzo Doebbing è bellissimo, le opere che ospita sono state, in un modo molto intimo, tutte per noi: un regalo che ci fa sentire dei privilegiati. Questo, proprio questo sentirsi ricchi e appagati e speciali, è ciò che l’arte dovrebbe trasmettere a ognuno di noi. Critico o amatore, conoscitore o ignorante in materia, giovane o vecchio: l’arte che arricchisce e nutre lo spirito è proprio questa, proprio qui, a un dito di distanza tra la tela e l’occhio.
Le immagini dell’articolo sono tutte prese dal sito web ufficiale di Palazzo Doebbing